Home » Scritti su Petrarca » Accidia aegritudo depressione

Accidia aegritudo depressione


Accidia, aegritudo, depressione: modernità di un poeta medievale

 

In una celebre pagine del classico saggio sulla lingua di Petrarca, Gianfranco Contini scriveva: “E’ un fatto che noi moderni ci sentiamo più solidali col temperamento, dico il temperamento linguistico, di Dante; ma è altrettanto un fatto che la sostanza della nostra tradizione è più prossima alla cultura petrarchesca”. L’opposizione così motivata poteva anche apparire equanime, ma in realtà nascondeva un chiaro giudizio di valore: la famigliarità delle lettere italiane con Petrarca, quasi un rapporto genetico iscritto nel Dna, non comporta infatti che egli sia sentito come attuale, a differenza di Dante che, pur dalla sua lontananza, riesce a far scattare processi di identificazione. Insomma, a Petrarca non basta essere presente per essere anche attuale. E non vale la limitazione al “temperamento linguistico”, dal momento che Contini attraverso la lingua ha sempre mirato al ritratto a tutto tondo. Contini scriveva quella frase nei primi anni del secondo dopoguerra. Ciò significa che quella sua opposizione è anche percorsa da una forte tensione militante. Il “secondo dopoguerra”, infatti – scriverà non molti anni dopo nel prefare la Cognizione del dolore di Gadda, cioè nel saggio in cui abbozza i percorsi della componente espressionista della letteratura italiana -, è “largamente connotato da sollecitazioni della norma, da violenza di escursioni fuori della media”, in una parola, da “espressionismo”: e “l’espressività – ricorda sempre Contini in quella prefazione – è “l’equivalente d’una realtà non pacifica, al metafisico e al sociale”. Che in quegli anni, dunque, il ‘comico’ dantesco potesse apparire più attuale del classicismo petrarchesco non sorprende. Addirittura, nel saggio sulla lingua di Petrarca Contini poteva spingersi a sostenere che “il lungo tirocinio esercitato dai moderni sulle violenze verbali, dal romanticismo all’espressionismo, e mettiamoci pure il noviziato, secondo quei lumi, dell’apprendimento dantesco, permettono finalmente di valutare, al limite, le esperienze verbali senza violenza, con esclusione di violenza, cioè di conseguire una comprensione degli ideali classici di equilibrio, alla quale male si può giungere dall’interno”. Quanto a dire che Dante aiuta a capire Petrarca.

         A più di mezzo secolo di distanza, una volta istituzionalizzatesi le istanze di rottura espressiva, assorbite e neutralizzate come normale ingrediente della moderna letteratura, e interrottosi una volte per sempre il filo genetico con il classicismo petrarchesco, non si individuano proprio ragioni che possano giustificare un paragone ‘militante’ fra Dante e Petrarca. Preso atto che Petrarca non è responsabile del petrarchismo più di quanto Dante lo sia del mancato dantismo, non è con l’occhio alla tradizione o alla condizione presente della letteratura che possono risaltare le ragioni della loro modernità. Anzi, per quanto riguarda Petrarca, uno sguardo filologico, che si volga alla sua poesia sorvolando su quanto da essa nei secoli è scaturito e che miri a far luce sulle motivazioni che allora guidarono l’autore, sembra assai più adatto a evidenziane la modernità. Sono convinto, infatti, che le vere ragioni per cui noi oggi possiamo sentire ancora nostra e coinvolgente la sua poesia coincidano in gran parte con quelle che, in pieno Trecento, ne caratterizzarono la novità rivoluzionaria.

 

 

Non è su Dante che essa va misurata - perché, semmai, ma il discorso sarebbe lungo, Dante sta dalla parte di Petrarca -, ma sulla tradizione di lirica amorosa che, generalizzando, possiamo chiamare ‘cortese’. Ancora semplificando, possiamo dire che quella tradizione, che dalla Provenza del XII secolo ha impregnato di sé quasi tutto il lirismo europeo, e non solo di lingua romanza, aveva come caratteristica principale il concepire e il praticare la poesia come fenomeno eminentemente sociale. La lirica d’amore non era solo un prodotto da consumare in pubblico, attraverso performance e recitazioni, era intimamente strutturata in funzione del pubblico: presupponeva e richiedeva un “tu” o un “voi” ai quali rivolgere il discorso; era dialogica per natura. Dialogico significa anche aperto verso l’esterno: alla cronaca e al quotidiano, al teatro della vita associata e ai rituali di classe; significa, soprattutto, che lo stesso pubblico a cui la poesia si rivolge come destinatario empirico in grande misura è anche, in un gioco di reciproco rispecchiamento fra testo e uditorio, il vero soggetto del discorso, E’ noto come attraverso questo dialogo la poesia lirico-amorosa abbia diffuso nella società feudale un codice letterario e, nello stesso tempo, comportamentale, e lo abbia fatto in modo tanto capillare e pervasivo da diventare la principale forma di autocoscienza della classe nobiliare. In sostanza, la lirica, insieme al romanzo, è stato uno dei grandi fattori di formazione dell’ideologia nobiliare europea.

         Ebbene, la poesia di Petrarca rompe con la dimensione sociale. E’ solitaria, isolata; non cerca il dialogo con i lettori, rifugge dalla cronaca, dagli eventi esterni. Si chiude dentro al rapporto tra l’io e l’oggetto del suo desiderio. Rispetto a quella contemporanea e precedente, questa poesia, che seleziona, recide, allontana da sé la storia e la realtà esterna, sembrerebbe perdere in ricchezza e vastità di sguardo, se non fosse che essa recupera in verticale tutto lo spazio orizzontale a cui ha rinunciato. A quella sociale, infatti, essa sostituisce una dimensione interiore, ai territori della vita di relazione quelli della soggettività. Questa di Petrarca è una vera rivoluzione copernicana. Se la poesia medievale aveva al suo centro l’amata, tanto che il soggetto altro non era che il destinatario degli effetti, negativi o positivi che fossero, da essa prodotti, il motore della lirica petrarchesca è l'Io del poeta.

La specola soggettiva fa sì che i temi di fondo della tradizione cortese vengano tradotti da Petrarca in un diverso linguaggio concettuale. Per esempio, il motivo capitale della frustrazione del desiderio, legato nella lirica cortese al rifiuto da parte della dama, e quindi in ultima analisi a motivazioni di ordine sociale, è da lui interiorizzato nel dissidio fra incoercibilità del desiderio e consapevolezza della sua peccaminosità. Insomma, una dinamica interpersonale è trasformata in una dialettica interna alla coscienza. La traduzione che dicevo avviene, dunque, in termini etici. Ed è proprio la componente morale, estranea al laicismo della lirica medievale, a dare spessore all’Io, a costruirlo come personaggio. E a sua volta, il personaggio articola, arricchisce, potremmo dire, modernizza, la psicologia dell’Io.

Il dialogo che non cerca con i lettori e con ciò che trascende il testo, la poesia di Petrarca lo cerca con altri testi. A differenza della lirica cortese, che proprio in quanto prodotto sociale si esprimeva in testi autonomi e autosufficienti, trasmessi e usufruiti singolarmente, la poesia di Petrarca richiede un contesto letterario, richiede cioè che i singoli componimenti siano messi in relazione con altri del suo autore, che certi dati di fatto e, più ancora, certe costanti tematiche e psicologiche siano presenti alla memoria del lettore. Fino a quando Petrarca non ha provveduto a raccogliere le “rime sparse” e a ordinarle in un libro, il Canzoniere, si è trattato di un contesto virtuale: semplicemente, della conoscenza sporadica e rapsodica di altre poesie. Una volta che il Canzoniere ha conferito loro una chiave di lettura, un significato complessivo e i parametri per una corretta interpretazione dell'insieme, dunque un concreto contesto sotto forma di libro, il lettore è stato messo in grado di apprezzare tutte le sfumature di senso dei singoli componimenti. Senza il libro l’Io non avrebbe potuto costruirsi in personaggio: le dinamiche dell’introspezione psicologica avevano bisogno di uno spazio letterario per potersi esplicare. Il Canzoniere ricrea sotto forma di mondo virtuale quel mondo reale che la poesia di Petrarca nega.

 

 

Il sonetto che segue (R.v.f, 272) è uno dei più famosi. La sua lettura potrà documentare, testo alla mano, come si eserciti l’autoanalisi petrarchesca e, nello stesso tempo, come il Canzoniere possa interferire, sino a modificarlo, sul senso di singoli componimenti.

 

 

La vita fugge, et non s'arresta una hora,

et la morte vien dietro a gran giornate,

et le cose presenti et le passate

mi dànno guerra, et le future anchora;

 

e 'l rimembrar et l'aspettar m'accora,

or quinci or quindi, sì che 'n veritate,

se non ch'i' ò di me stesso pietate,

i' sarei già di questi pensier' fora.

 

Tornami avanti, s'alcun dolce mai

ebbe 'l cor tristo; et poi da l'altra parte

veggio al mio navigar turbati i vènti;

 

veggio fortuna in porto, et stanco omai

il mio nocchier, et rotte àrbore et sarte,

e i lumi bei, che mirar soglio, spenti.

 

 

E’ improbabile che il lettore a cui, poco dopo la metà del Trecento, fosse capitato tra mani questo sonetto non sapesse chi era Francesco Petrarca. Se non altro, perché Petrarca era il più celebre letterato d'Europa. Doveva sapere, dunque, che, benché fosse soprattutto conosciuto come studioso della classicità e autore di poemi, opere storiche, trattati morali, epistole (in verso e in prosa) in latino, Petrarca scriveva anche poesie in volgare, che queste poesie parlavano, con pochissime eccezioni, del suo amore per una donna, che questa poi era defunta, ma che lui, fatto insolito per quell'epoca, aveva seguitato a celebrare anche dopo morta. Se per caso non avesse avuto una qualche conoscenza, anche parziale, di altre poesie di Petrarca, ben difficilmente quel lettore avrebbe potuto capire sino in fondo il significato del sonetto, del quale avrebbero potuto sfuggirgli persino alcuni passaggi della lettera: a chi appartengono i begli occhi che il poeta era solito ammirare? perché ora sono spenti?

         I "lumi bei ... spenti" dell'ultimo verso sono, ovviamente, gli occhi di Laura defunta. Questo, però, è l'unico luogo del sonetto ove si alluda alla donna amata; di più, è l'unico luogo dove, per quanto indirettamente, si alluda al sentimento amoroso. Di fronte a tanta reticenza, ci si può persino chiedere se sia effettivamente un sonetto d'amore. La risposta è sì, è anche un sonetto d'amore, ma la motivazione richiede una analisi attenta.

         Se nel testo la donna amata è assente e latitano i segni dell'affettività e del desiderio, in compenso, per tutta la sua estensione campeggia l'Io del poeta. L’Io si presenta affetto da una crisi profonda, talmente angosciosa e insopportabile che, se non avesse paura della pena eterna a cui sarebbe destinato ("se non ch'i' ò di me stesso pietate", v. 7), il poeta sarebbe persino disposto a mettere fine alla vita con le sue stesse mani ("i' sarei già di questi pensier' fora", v. 8). La tentazione del suicidio - motivo assai raro nella lirica anteriore a Petrarca,  ritorna con una certa frequenza nel Canzoniere, e sempre in relazione a Laura: per sottrarsi al tormento dell’amore frustrato (71, 42-44):

 

Ma se maggior paura

non m’affrenasse, via corta et spedita

trarrebbe a fin questa aspra pena et dura

 

(è la stessa argomentazione del nostro sonetto: “se non ch’i’ ò di me stesso pietate…) o per accelerare il ricongiungimento con l’amata defunta (268, 4-6, 60-65):

 

Madonna è morta, et à seco il mio core;

et volendol seguire,

interromper convien quest’anni rei

………………………………….

… lei, ch’è salita

a tanta pace, et m’à lassato in guerra:

tal che, s’altri mi serra

lungo tempo il camin da seguitarla,

quel ch’Amor meco parla

sol mi riten ch’io non recida il nodo.

 

In ogni caso, il motivo della morte procurata si iscrive dentro la tematica amorosa e ciò basta a disinnescare la carica eversiva di quella ventilata soluzione. L’amore è folor, follia. Dunque un suicidio per amore, per di più, poi, nemmeno messo in pratica, poteva rientrare nelle estreme, ma attestate, manifestazioni patologiche della malattia amorosa. E poi, ad arrotondare ulteriormente le punte troppo aguzze c’era il fatto che il suicidio per amore trovava legittimazione nella tradizione classica. A giustificare l’innamorato-poeta del Medioevo provvedeva Didone, che si era data la morte con la spada di Enea. Era tanto potente questo sigillo, che bastava pronunciare la parola “spada” perché al lettore tornasse in mente il poema virgiliano. Un attardato stilnovista come Dino Frescobaldi nella canzone Morte avversara, poich’io son contento, vv. 68-72 accenna lui pure a un suicidio amoroso, in questi termini: “io sarò più possente d’ella [la natura], in tanto / ch’un’ora, nel mio pianto, / mi manderò diritto al cor la spada: / ov’io soggiacerò una volta morto, / poiché vivendo ne fo mille a torto” (tanto che, una buona volta, mi trafiggerò con la spada, cosicché morirò una volta per tutte, mentre ora muoio mille volte al giorno). E lo stesso Petrarca non si esime dal ricordare che una donna, sofferente per amore quanto lui, “l’amata spada in se stessa contorse” (Verdi panni sanguigni, 38). Insomma, nell’esile tradizione che lo contempla, il suicidio amoroso non solo non nasce dall’impossibilità di vivere, ma può persino presentarsi come un modo per continuare a vivere.

 Il nostro sonetto, però, almeno a prima vista, non si presenta come un testo amoroso. C’è da chiedersi allora da cosa sia scatenata una crisi esistenziale talmente profonda da far meditare persino il suicidio.

I primi versi sembrerebbe fornire subito la risposta: la labilità della vita, la fuga inarrestabile del tempo e l'incombere della morte ("La vita fugge, et non s'arresta una hora, / et la morte vien dietro a gran giornate", vv. 1-2), in una parola, la paura della fine e dell'annullamento, sono causa di tanta angoscia. Siamo ben lontani, dunque, da un suicidio tra il metaforico e il galante. Se a suscitare tanta disperazione fosse effettivamente la paura della morte incombente, ebbene ciò, in un'età nella quale per un autore cristiano la morte non può essere che il passaggio da una vita transitoria a un'altra eterna, sarebbe un fatto quasi sconvolgente. L'ortodossia morale, infatti, richiede che non sia la paura della morte, ma quella della dannazione a suscitare angoscia. Se proseguiamo nella lettura, questa prima impressione si precisa e nello stesso tempo si complica. Già i due versi successivi presentano quella vita della quale i primi due sembrano lamentare la brevità e la fugacità non come valore di cui si teme la perdita, ma come una fonte di affanni e di dolori, sia al presente che nel passato e, addirittura, nel futuro ("e le cose presenti et le passate / mi dànno guerra, et le future anchora", vv. 3-4). La seconda quartina ribadisce la negatività della vita: i ricordi generano pena così come le aspettative. I ricordi – specifica la prima terzina -sono dolorosi perché riportano alla memoria eventuali dolcezze perdute (ma eventuali, tutt'altro che certe: "s'alcun dolce mai / ebbe 'l cor tristo", vv. 9-10), le aspettative perché preannunciano un futuro privo di speranze. Attraverso una prolungata e tradizionale metafora della vita come nave in viaggio, il futuro è presentato come irto di pericoli esterni (i venti sono agitati, la tempesta [“fortuna”] imperversa persino nel porto) e il poeta come privo degli strumenti necessari per fronteggiarli (il nocchiero che dovrebbe guidarlo, cioè la ragione, è stanco; le virtù che dovrebbero sorreggerlo, l'albero e i cordami, addirittura spezzate). L’impostazione da sonetto ‘morale’ che il testo sembrerebbe suggerire in partenza si rivela ingannevole: la desolata descrizione di una vita senza speranza non cede in alcun punto al senso di colpa, non accenna a moti di pentimento. Persino la paura dell’aldilà opera solamente in negativo: non come stimolo per conseguire la vita futura, ma come deterrente per conservare quella attuale.

Tra i motivi che rendono così incerto e disperato l'esito della navigazione l’ultimo verso del sonetto elenca anche la circostanza che gli occhi dell'amata, i quali, come le stelle i naviganti, solevano guidarlo, sono stati spenti dalla morte. L’accenno agli occhi-stelle basta per farne un sonetto amoroso? Secondo i dettami della retorica la posizione in clausola dovrebbe conferire una particolare evidenza all’enunciato; ora, non mi spingo fino a dire che l’enumerazione polisindetica delle terzine disegni una anti-climax, ma che non ci sia progressione a incremento di intensità, questo credo di poterlo affermare. La morte della donna amata è uno dei pericoli e degli ostacoli che fanno disperare il poeta di salvarsi, niente lascia presagire che sia il più grave. E poi, salvare da cosa? Ripetiamo dunque la domanda che prima ci siamo posti: qual è la causa di tanta disperazione? Quale evento, quale sentimento, quale trauma l’hanno generata? Abbiamo visto che la lettera del testo non individua una causa specifica, un evento o una perdita scatenanti. Neppure la morte dell’amata sembra caricarsi di tanta responsabilità. Il sonetto ci dice che una cappa di negatività incombe sulla vita del locutore, su quella presente come sulla passata, e rende nera, cupa la sua visione del futuro. Ma è una negatività che non si specifica e che non è giustificata: anzi, essa appare quasi come la  normale condizione della vita di questo soggetto.

Prima ancora che i temi e i contenuti, è l'andamento stilistico e sintattico del testo a dare corpo alla sensazione di ineluttabilità, quasi di quotidiana consuetudine, di un male di vivere che il poeta non sa definire. Figure iterative imperniate sulla coordinazione polisindetica ("et non s'arresta ... et la morte ... et le cose ... et le passate ... et le future ... e 'l rimembrare et l'aspettar”;  “et poi ... et stancho omai ... et rotte ... e i lumi bei”); susseguirsi in giaciture contigue di elementi lessicali semanticamente opposti (“fugge, et non s'arresta”; “presenti et le passate”; “(i)l rimembrare e l'aspettar”; “or quinci or quindi”); anafore insiste (“et la morte”, “et le cose”, “e ‘l rimembrare”, “e i lumi”) o esaltate dal collocarsi a cavallo di partizioni strofiche (“veggio ... veggio”); costruzione parattatica, per giustapposizione di brevi periodi, tenuta, con la sola eccezione dei versi centrali, là dove emerge l'idea del suicidio, per l’intera estensione del testo; fitto reticolo di assonanze, regolari (-ate; -arte) e parziali (-ate, -ai, -arte; -ora, -arte; ate, -arte, -enti), a racchiudere entro una gamma limitata di suoni l'intero giro delle rime: tutto ciò produce un ritmo lento e ribattuto, una musicalità monotona, come se una idea fissa, una coazione a ripetersi, guidasse la voce del locutore. Sulle cadenze di questo passo regolare e un poco coatto prendono forma i contorni di una patologia. Noi oggi la chiamiamo depressione; Petrarca usava categorie filosofico-morali e, pertanto, riteneva che quello stato malinconico della coscienza, quell'incapacità di operare e di guardare alla vita con la fiducia del credente fosse, sì, un male, un morbo, ma un morbo moralmente peccaminoso: l'accidia, una “tristitia – scriverà in una delle sue epistole senili (Sen. XVI 9) – nullis certis ex causis orta”, della quale, cioè, non è possibile indicare con sicurezza le cause.

 

 

Nel dialogo latino, il Secretum, nel quale Franciscus, controfigura dello stesso Petrarca, compie un profondo esame di coscienza sotto la guida di S. Agostino, l’accidia è oggetto di una attenta analisi all’interno del libro II. Provocato da Agostino: “Sei in preda di una tremenda malattia dello spirito, che i moderni chiamano accidia e gli antichi aegritudo” , Francesco non ha difficoltà a riconoscere: “E’ vero” (Fateor), e a dipingere un quadro a lui ben noto: “in questa tristezza tutto è aspro e misero e orribile e la via della disperazione è sempre aperta, e tutto fa sì che le anime infelici ne siano sospinte verso la morte […] questo flagello mi ghermisce a volte così tenacemente da tormentarmi nella sua stretta per giorni e notti intere, e allora per me non è più tempo di luce e di vita, ma oscurità e inferno e strazio mortale” . E poco dopo, ad Agostino che gli chiede di spiegarsi meglio, racconta: “se la fortuna [….] mi butta addosso tutte le miserie della condizione umana e il ricordo degli affanni passati e il terrore dei futuri, allora […] comincio a lamentarmi. E’ questa l’origine di quel grave dolore: come se uno fosse circondato da innumerevoli nemici e non avesse alcuna via di fuga, né speranza di clemenza, né soccorsi, ma tutto gli fosse contro” . Si noti: all’interno di una metafora bellica (la fortuna assedia e colpisce per espugnare), le armi a cui ricorre il nemico sono la “laborum preteritorum memoria futurorumque formido”, proprio come nel sonetto “le cose … passate / .. dànno guerra, et le future anchora”. Dell’impossibilità per l’accidioso di apprezzare le “cose presenti” queste pagine del Secretum fanno addirittura il segno precipuo della malattia: “Dimmi, qual è per te la cosa peggiore? – chiede Agostino; “Tutto quello che vedo attorno, e quello che ascolto e quello che tocco” – risponde Francesco; “Perbacco! Non ti piace nulla di nulla?” – incalza Agostino; “Niente, o poche cose davvero” – ribadisce Francesco. “Tutto questo – conclude Agostino – è tipico di quella che ho chiamato accidia: le cose tue, ti affliggono tutte” .

 

 

Ecco a cosa ha portato la rivoluzione copernicana di Petrarca: all'indagine delle profondità della psiche, dei mali dell'anima, dei dubbi davanti alla vita presente e a quella futura. Petrarca non aveva categorie di analisi psicologica a disposizione; usava categorie della filosofia morale. L'avere introiettato la colpa, l'avere cristianamente fatto del desiderio amoroso un peccato è stato il passo necessario perché la poesia potesse lasciare il territorio delle apparenze e dei comportamenti codificati e scavare nel regno oscuro della soggettività. Potremmo dire che una religiosità inquieta e in certi momenti lacerante è all’origine del laicismo di Petrarca. A modo suo, anche lui era un realista. Anche per lui, come per Dante, la letteratura era uno strumento di conoscenza.

 

 

Abbiamo ancora lasciato in sospeso la motivazione per cui questo, nonostante tutto, è anche un sonetto d'amore. Abbiamo visto che la morte della donna è uno dei motivi di tanta disperazione. Guidato dagli occhi dell’amata - sembra suggerire il testo – forse l’Io avrebbe potuto scampare alla tempesta. Ma la tempesta è persino nel porto e pertanto nemmeno quei lumi-stelle avrebbero potuto indicare la rotta della salvezza. Pare proprio, dunque, che quell'ultimo verso non sia altro che un omaggio, improbabile e quindi poco convinto, ai moduli del poetare d’amore, la sopravvivenza di una abitudine, una metafora priva di vere implicazioni ideologiche e psicologiche. Un guizzo stanco, impotente davanti a tanta negatività. Questo, però, è quanto si evince da una lettura isolata del sonetto. Se invece lo leggiamo avendo presente il contesto, quello virtuale a disposizione dei lettori poco dopo la metà del Trecento o il Canzoniere a cui noi possiamo accedere, l’interpretazione si arricchisce e si complica di nuove significazioni. Dagli altri testi, infatti, veniamo a sapere che Laura e l'amore da lei suscitato non sono, dal punto di vista ideologico, alleati a quel nocchiero e a quegli strumenti della nave di cui qui si lamenta l'inefficienza. Semmai è il contrario. Se in questo sonetto al locutore sembra che la vita non abbia più futuro perché l'irrazionalità sta per prendere il posto di nocchiero che spetta alla ragione, ebbene, il Canzoniere ci insegna che l’amore è per l’appunto una delle grandi passioni nemiche della ragione. Sostenere che il nocchiero, l'albero, le sarte e i “lumi bei” collaborano come agenti di salvezza è un vero falso ideologico. Ciò che alla lettura isolata appare un omaggio privo di grande rilevanza, nella lettura contestuale finisce per rivelarsi una contraddizione. Il rimpianto e la nostalgia del passato trasformano in positivo il segno di una esperienza in sé negativa. Un sonetto sottilmente pervaso, nella sua incapacità di individuare e dire sino in fondo le ragioni del male, da una vena irrazionale, si chiude con una affermazione patentemente irrazionale. Ma è una affermazione che incrina un testo dominato dall’inerzia, dal torpore, dalla stanchezza di vivere, e che lascia trapelare un soffio di vitalità: quegli occhi, suggerisce il locutore, avrebbero potuto salvarlo, nonostante tutto ciò che lui aveva scritto e pensato della passione. Nel male di vivere brilla ancora e nonostante tutto la stella amorosa.

 

Nota bibliografica

 

Le citazioni continiane sono tratte dai saggi: Preliminari sulla lingua del Petrarca (1951) e Introduzione alla “Cognizione del dolore” (1963), poi pubblicati entrambi in Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi 1970: il primo alle pp. 169-92, il secondo alle pp. 601-19. Per la dialogicità e la dimensione sociale della poesia medievale rimando al volume di Claudio Giunta, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Bologna, Il Mulino 2002; per la funzione ideologica della lirica amorosa provenzale a Erich Köhler, Sociologia della fin’amor. Saggi trobadorici, Padova, Liviana 1976. Ho parlato ampiamente dei caratteri distintivi della poesia petrarchesca rispetto alla tradizione romanza nel libro I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino 1992 e nell’Introduzione a Francesco Petrarca, Canzoniere, Milano, Mondadori 1996. La canzone di Frescobaldi si legge in Dino Frescobaldi, Canzoni e sonetti, a cura di Furio Brugnolo, Torino, Einaudi 1984. Il Secretum è citato da Francesco Petrarca, Secretum,a cura di Enrico Fenzi, Milano, Mursia 1992.