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io e tu


“Io” e “tu” fra Stilnovo e
Petrarca(1)

1. Un importante libro di Claudio Giunta(2)  ha mostrato come la dialogicità sia
l’elemento centrale, il perno intorno al quale ruota gran parte della poesia
medioevale. E’ significativo che la percentuale di componimenti poetici
rivolti, direttamente o no, a un destinatario storico sia altissima, ma sono
ancor più significativi il fatto che il numero di componimenti dialoganti con
altri testi sia assai elevato e la constatazione che è molto diffusa la
tendenza a “portare il dialogo dentro il monologo, attraverso le figure della
prosopopea e della sermocinatio, a moltiplicare le voci, gli interlocutori
all’interno dei testi medesimi, trasformando così componimenti per loro natura
monologici (come di solito è la lirica amorosa) in colloqui fittizi con oggetti
o entità astratte personificate”. Dall’accurata ricognizione dei diversi tipi
di dialogicità poetica condotta da Giunta emerge come tratto comune “un
atteggiamento nei confronti della poesia” che può essere chiamato con molti
nomi: “perorativo, estensivo, orientato alla discussione e al ragionamento non
alla confessione”, ma che lo stesso Giunta sintetizza (“più genericamente ma
anche più esattamente”) come “non lirico”. Questa osservazione vale, in prima
istanza, per la poesia non amorosa. In effetti, è proprio al di fuori dalle
codificazioni lirico-amorose che bene si coglie come l’impostazione dialogica
sia peculiare di una poesia intesa e praticata quale mezzo di comunicazione,
come strumento capace di intervenire e incidere sulla realtà, capace cioè di
trasmettere messaggi efficaci. A una produzione poetica sorretta da intenti
pragmatici così evidenti non può essere applicata, come afferma insistentemente
lo stesso Giunta, la categoria storiografica di “poesia formale”.

E’ questa una poesia impegnata, compromessa con la realtà,
assai più umorale e anarchica che ossequiosa delle regole. Se, oggi, ne abbiamo
una percezione diversa, ciò è dovuto, in parte, alla vischiosità delle
interpretazioni storiografiche, che solo lentamente si lasciano modificare
dalle nuove acquisizioni, e in parte ancora maggiore dalle vicende della
trasmissione dei testi. Mi riferisco, ovviamente, al naufragio di una porzione
non quantificabile, ma sicuramente molto grande, della produzione poetica
pre-petrarchesca e, soprattutto, al fatto che le perdite non saranno tutte da
attribuire al caso. Anzi, con ogni probabilità solo una parte minoritaria sarà
uscita dalla catena della trasmissione manoscritta a causa di eventi
accidentali. Come sempre succede nella storia, la cancellazione della memoria
avrà colpito i perdenti: nel caso specifico, la produzione non amorosa e, in
misura minore, quella parte di prodotti amorosi eterodossa rispetto alla linea
vincente disegnata da Dante quando aveva fissato la trafila: Siciliani –
Stilnovo (trafila alla quale, poi, una vulgata storiografica tuttora in auge
avrebbe aggiunto Petrarca). Insomma, le tradizioni arrivano a noi già modellate
dalle visioni della storia che ne hanno selezionato i contenuti.

Da quando disponiamo dell’edizione integrale dei
canzonieri antichi procurata da Avalle(3) 
e delle ricostruzioni storiche di Giunta possiamo farci un’idea della
poesia comunale della “generazione di mezzo” molto più precisa che in passato,
E così possiamo constatare quanto sia ampio lo spettro dei generi e dei
contenuti di una poesia che spazia dalla politica alla morale, dai temi
dottrinali a quelli scientifici, dall’impegno didattico all’evasione goliardica
e giocosa, fino a dar voce, in forme pre-artistiche, a esperienze del vissuto.
La conclusione a cui perveniamo quasi obbligatoriamente è che nel mondo diviso
e litigioso, ma nello stesso tempo creativo e innovatore dei comuni toscani la
poesia volgare rappresentò lo strumento letterario, se non esclusivo, certamente
più duttile e potente per parlare della realtà. Da qui la rilevanza della
componente dialogica. Se un testo poetico si configura prima di tutto come atto
comunicativo, quel testo è per sua natura dialogico, e ciò nel pieno senso
della parola: voglio dire che ai “tu” o ai “voi” empirici a cui si rivolgono i
messaggi di questa poesia corrispondono un “io” o un “noi” altrettanto
empirici. Destinatore e destinatario portano nella comunicazione la loro
specifica e storica individualità. Il rinvio all’extratesto agisce dunque nelle
due direzioni: al di qua e al di là del testo, ed entrambi i rimandi sono
portatori di significato.

2. Diverso, pur nell’apparente somiglianza, è il quadro della tradizione lirica amorosa, in particolare nella sua trafila vincente:  Siciliani – cortesi – Stilnovisti. Che la
quasi totalità della lirica d’amore duecentesca sia dialogica, che il suo
discorso cioè sia rivolto a un “tu” o, con più frequenza, a un “voi” inglobati
nel testo o presupposti, è un dato di fatto che non richiede il sostegno di
prove: che il più venerando canzoniere delle origini, il Vaticano, si apra con
una canzone allocutiva: “Madonna, dir vo voglio”, può essere di per sé
considerato emblematico. Naturalmente bisognerebbe distinguere, dal momento che
anche la produzione lirico-amorosa di questo secolo è assai variegata al suo
interno. Forse il ruolo della destinataria del discorso ha coloriture diverse
presso i guittoniani e gli anticortesi rispetto agli eredi della Scuola di
Sicilia, come è probabile che la seconda persona dei Siciliani sia meno mossa,
più convenzionale di quella di un Guinizelli o di un Bonagiunta. In ogni caso,
non sembra contestabile il primato della funzione destinatario nel complesso
della lirica d’amore.




Nei testi amorosi, però, i rapporti tra i fattori della
triade destinatore, messaggio, destinatario, se paragonati a quelli vigenti nei
coevi componimenti politici, morali, dottrinali, appaiono vistosamente
scompensati. La focalizzazione, qui, è sull’oggetto d’amore. E’ la dama a tenere
il centro del discorso: sia direttamente, come oggetto di lode o di
riprovazione, sia indirettamente, come punto di irradiamento degli effetti
fisici e psicologici che l’amante registra su di sé e dentro di sé. Ciò di cui
il discorso lirico-amoroso parla viene così a sovrapporsi e a coincidere con la
persona a cui parla. Fra le numerose conseguenze che tale sovrapposizione
produce sull’assetto testuale di particolare rilievo è il depotenziamento della
funzione dell’Io. Molti, moltissimi componimenti sono caratterizzati da una
sorta di eclissi dell’Io, ridotto a essere, passivamente, l’oggetto sul quale
si scaricano gli effetti negativi o positivi che promanano dalla dama, la quale
giunge così a ribaltare, nella dinamica sostanziale del discorso, il ruolo linguistico-retorico
di destinataria. In gran parte della lirica amorosa l’Io è poco più di una
funzione grammaticale, un pronome privo di un vero potere referenziale, perché
è senza corpo, senza storia e, spesso, senz’anima. Chiunque potrebbe essere il referente
di un Io che in realtà parla come un “noi”, chiunque, ben inteso, appartenga
alla specie degli innamorati di cui esso è un anonimo ma esemplare esponente.




Se questo è l’orizzonte che circoscrive gran parte della
produzione lirico-amorosa del Duecento, comprendiamo bene perché la poesia di
ricerca di quell’epoca, potremmo dire la poesia d’avanguardia, abbia scelto
come uno dei terreni di sperimentazione privilegiati il ruolo e l’identità
della seconda persona. Per questo aspetto, come per altri, il laboratorio più
avanzato è quello stilnovistico.  Le
linee di tendenza più interessanti sono due: una tocca la figura del
destinatario, l’altra quella del destinatore, o meglio, del locutore.
Anticipate da Guinizzelli, in maniera più sporadica, e da Cavalcanti, in modo
più sistematico, entrambe sono state perseguite con coerenza e consapevolezza
teorica da Dante.




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3. Entrambe hanno origine dal fatto che le punte più
avanzate dello Stilnovo, proprio perché incentrano la lirica sulla visione
estatica, portano a divaricare oggetto della celebrazione e destinatario del
discorso celebrativo. Ciò, se non comporta la fine della poesia allocutiva,
certamente comprime lo spazio di quell’allocuzione a due, dell’amante
all’amata, che era tipica della poesia prestilnovista. Nella prima tendenza,
quella numericamente più folta, il “voi-tu” rivolto alla donna, in alcuni casi
scompare, più spesso si trasforma in un “voi-voi”, si allarga cioè a un “voi”
collettivo (i cuori gentili, gli amanti, i poeti, le donne) con funzione di
testimone e di compartecipe dell’esperienza amorosa. Del percorso che ha come
sbocco finale, raggiunto peraltro solo da pochi selezionatissimi testi, il
rifiuto dell’allocuzione la scoperta dantesca della lode costituisce il momento
culminante. Del resto la concezione dell’amore gratuito e disinteressato,
dell’amore cioè che non cerca ricambio né nel saluto né in altro atto di
reciprocità, concezione che la prosa della Vita Nova pone a fondamento della
lode. costituisce una precisa giustificazione teorica del rifiuto della poesia
allocutiva. La funzione destinatario può attenuarsi fino a scomparire (si pensi
a sonetti come il cavalcantiano Chi è questa che vèn? o i danteschi Tanto
gentile e Vede perfettamente) o modificarsi allargandosi a una collettività,
come avviene nel testo fondativo della lode: Donne ch’avete intelletto d’amore.
In genere sono collettività ristrette e preselezionate. Tuttavia nel percorrere
questa seconda strada, e già al tempo della Vita Nova, Dante si spingerà ben
oltre la chiusa e specialistica coralità stilnovista. La consapevolezza,
raggiunta dopo aver sperimentato la fallacia dell’eros cortese, che Beatrice
possiede la capacità miracolosa di “svegliare” Amore “non solamente … là ove
dorme, ma là ove non è in potenzia”, cioè, come è ribadito poco dopo, di
“inducere Amore in potenzia là ove non è” (XXI 1, 6 [12, 1]), rompe
l’identificazione amore-cor gentile dalla quale veniva fatto discendere il
principio della restrizione del pubblico della poesia e con ciò apre la
possibilità di allargare il “voi” a un pubblico indifferenziato (4). La
capacità straordinaria di “parlare” a tutti di cui Beatrice è miracolosamente
fornita finisce per recidere, almeno teoricamente, gli ultimi vincoli che
ancora legavano il discorso amoroso al retaggio dell’allocuzione a due,
“io-tu”, e quindi per conferire al lirico-innamorato la capacità di svolgere un
discorso de Amore di portata tendenzialmente universale. Ma questa acquisizione
del libello, non a caso argomentata nella prosa e assai poco praticata in
poesia, è più una possibilità teorica che una realtà: non basta un sonetto ai
“peregrini” per dare sostanza testuale a quell’intuizione a posteriori.




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4. Il Canzoniere di Petrarca, in virtù dell’iniziale
appello ai lettori: “Voi ch’ascoltate il rime sparse il suono”, sembrerebbe
portare alle sue logiche conseguenze l’idea dantesca della poesia d’amore che
si rivolge a tutti.  Dico sembrerebbe
perché è noto, invece, che l’ecumenismo petrarchesco è soltanto apparente. Il
sonetto proemiale chiama, sì, tutti quanti ad “ascoltare”, e confida perfino
che alcuni degli ascoltatori, quelli che conoscono per esperienza i mali
causati da amore, possano provare pietà e perdonare - insomma, introduce la
tradizionale preselezione dei destinatari all’interno di una cornice di
pubblico indifferenziato -, ma in realtà ai suoi ascoltatori  rivolge un discorso che, camuffato sotto le
vesti del vocabolario amoroso, soltanto pochi, allora (e anche oggi), erano in
grado di capire. Petrarca, infatti, non parla né alle donne né ai poeti d’amore
né agli innamorati né, tanto meno, a un pubblico casuale, ma parla ai dotti, ai
detentori di una cultura nuova che, ai suoi tempi, era appannaggio di una
ristrettissima élite. Gli studi di Francisco Rico hanno messo in evidenza
quante implicazioni etico-filosofiche, di matrice classica oltre che cristiana,
siano inglobate nella sua poesia volgare. Ne consegue che la sua piena
comprensione era alla portata soltanto dei colti, più precisamente, degli
umanisti, di quegli intellettuali, cioè, che potevano districare quelle
implicazioni da un linguaggio che solo in apparenza ricalcava i moduli
tradizionali della lirica amorosa.  Il
sonetto che all’inizio fornisce la chiave di lettura del libro ovviamente non
può fare eccezione. Ma quel “Voi” in prima sede ha quasi l’aria di un
depistaggio. In prima istanza, infatti, rassicura il lettore riportandogli alla
memoria una serie di incipit familiari - incipit lirici (Dante: “O voi che per
la via d’Amor passate, / attendete … e prego sol ch’audir mi sofferiate”[vv.
1.4]; “Voi che savete ragionar d’amore, / udite la ballata mia pietosa” [vv.
1-2], Cavalcanti: “I’ prego voi che di dolor parlate / che … non disdegniate la
mia pena udire” [vv. 1-3]) ) e non (“E voi, Amanti, prego ch’ascoltiate”,
Boccaccio, Filostrato I 6, 1) -, ma poi lo delude e lo sconcerta quando si
palesa come vocativo assoluto, poco più di un segnale di attenzione. Ma per il
colto lettore umanista quel segnale acquista quasi il senso di una
sconfessione, come se esso evocasse un ben noto passato per segnalare che il
lirico nuovo ne prende le distanze. Il fatto che il pubblico convocato in prima
battuta si presenti come un pubblico inerte, che non compie azione alcuna e non
esprime nessun giudizio, rende visivo il disinteresse di Petrarca nei suoi
confronti. I veri destinatari non sono nominati perché si autoselezionano,
tacitamente, leggendo. Ma quel “voi” sospeso sembra dire anche altro, e cioè
che nessun destinatario, in verità, alimenta il fuoco della poesia di Petrarca,
della quale solo l’Io poetico è l’inesauribile carburante.




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5. Resta la seconda tendenza, per altro strettamente
connessa alla prima, consistente nell’attenuazione, fin quasi alla scomparsa,
della presenza del soggetto. Rispetto alle poesie che negano all’amata la funzione
di destinataria del discorso, quelle che minimizzano il ruolo dell’amante, che
tolgono spazio all’Io locutore sono nettamente minoritarie. Il fenomeno appare
quasi solo nei momenti più alti della lode dantesca e nei pochi altri testi che
la precorrono. Sia in Tanto gentile, sia in Vede perfettamente non compare
nessun pronome di prima persona: in ciascuno dei due sonetti solamente un
isolato possessivo, per di più in identico sintagma: “la donna mia”, “la mia
donna”, testimonia il coinvolgimenti dell’Io in un discorso oggettivamente
asseverativo. Quando Dante, molti anni più tardi, farà discendere la sua
ispirazione amorosa da un autonomo principio superiore ricorrendo all’immagine
del dettatore e dello scriba (“I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto,
e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”, Purg. XXIV 52-54) fornirà
una pertinente giustificazione teorica della sua prassi poetica giovanile.
Possiamo allora concludere che, depotenziati sia il ruolo dell’emittente, sia
quello del destinatario, la più audace sperimentazione stilnovista gioca tutte
le sue carte sulla visione e sulla sua oggettiva rappresentazione. La storica
centralità dell’oggetto d’amore ne esce ulteriormente ribadita, ma in forma del
tutto nuova: la prepotenza con la quale esso si colloca al centro gli fa il
vuoto intorno: la visione estatica mette fuori gioco la comunicazione
interpersonale e quindi nega alla radice ogni tipo di dialogicità. E tuttavia,
non muove verso la scoperta della soggettività.




         Non ci si
può congedare da Dante, però, senza prima aver accennato almeno al fatto che lo
stesso libro in cui la poesia della lode giunge a consapevolezza teorica è
quanto di più contraddittorio si possa immaginare rispetto a quella poetica. A
contraddirla, in primo luogo, è l’idea stessa di libro, a maggior ragione, poi,
trattandosi di un romanzo, con tanto di protagonisti e di trama narrativa. In
una simile struttura il “tu” e l’”io”, trasformati in attori e in parte attiva
di una storia, acquistano lo statuto antilirico di personaggi. Ma questo è un
buon motivo perché, un mezzo secolo dopo, Petrarca possa riconoscere nel
prosimetro di Dante il punto di riferimento più vicino al suo originale romanzo
lirico.




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6. Non vorrei, tuttavia, avere suggerito l’idea sbagliata
che dall’orizzonte dei lirici amorosi del Duecento fosse escluso il problema
del soggetto locutore, dell’Io. 
Tralascio il caso particolare dei cosiddetti comico-realistici per
soffermarmi brevemente sul poeta che, fra tutti, ha declinato questo tema nel
modo più originale. Mi riferisco, ovviamente, a Guido Cavalcanti. Fra le molte
maniere provate da questo sperimentatore a noi interessa quella legata alla
concezione dell’amore da lui esposta nella canzone dottrinale Donna me prega.
Le ricerche di Natascia Tonelli hanno mostrato come nella sua canzone Guido
parli, con piena proprietà concettuale e terminologica, dell’amor hereos,
l’”amore eroico”, così come è descritto da una folta tradizione
medico-filosofica e come questa visione scientifica, in bilico tra psicologia e
fisiologia, del sentimento amoroso degenerato a fenomeno patologico, oltre a
pervadere i testi cavalcantiana dell’amore doloroso, si estenda a certo Dante
della Vita Nova e giunga a lambire perfino lo stesso Petrarca . Direi solo
lambire, però, perché nella poesia petrarchesca la terminologia
medico-filosofica medievale risulta alquanto depotenziata, integrata com’è in
un sistema metaforico nel quale le ascendenze mediche si mescolano con quelle,
prevalenti, etico-psicologiche. Un esempio. Se nella prosa IV 2 [2, 4] della
Vita Nova: “Dicea d’Amore, però che io [Dante] portava tante de le sue insegne,
che questo non si potea ricoprire” “le insegne d’amore sono – come spiega la
Tonelli – tecnicamente i signa,… ben manifesti in primo luogo nel viso dei suoi
fedeli, nelle ‘parti più tenere e delicate’, come dice Avicenna, e
immediatamente riconoscibili perché standard, visto che sono le innumeri volte
riproposti nei trattati di medicina (nei quali, come per ogni altra malattia,
del resto, esiste lo specifico paragrafo dei signa,  i Signa amoris, nel caso specifico) prima che nella canzone
cavalcantiana” ,  nell’incipit del
madrigale 54 del Canzoniere, “Perch’al viso d’Amor portava insegna”, la
riduzione del plurale “insegne” a un indeterminato e ambiguo singolare (segno
amoroso o vessillo?) denuncia quanto la parentela tra l’ambito tecnico e quello
metaforico sia ormai lontana, tanto che lo stesso termine può sottendere
significati assai diversi.




         Ritorniamo a
Guido. L’amor hereos di cui soffre l’”io” cavalcantiano ha un grande rilievo in
una indagine sul trattamento del soggetto perché è invasivo e totalizzante.
L’io sofferente occupa per intero lo spazio di molti componimenti dolorosi  espungendo ogni altra presenza. Con ciò
elimina dal discorso poetico la tensione verso l’altro e blocca sul nascere le
movenze allocutorie. Introiettato l’amore come malattia, l’Io si distacca
perfino dal suo oggetto di desiderio (e la poesia dalla sua rappresentazione),
ma non per questo si risolve in soggettività. La materializzazione delle
pulsioni psicologiche in sintomi fisici e in funzioni fisiologiche, da un lato
ne infrange, parcellizzandolo, l’unità, dall’altro lo trasforma da luogo della
coscienza in una sorta di motore incognito e segreto di una attività tutta esteriore.
L’Io doloroso cavalcantiano finisce per dissolversi sotto gli occhi del
lettore: non tratteggia i lineamenti di un personaggio e non lascia balenare i
conflitti di una interiorità. E’ corpo, corpo “che pare, a chi lo sguarda,
ch’omo sia / fatto di rame o di pietra o di legno, / che si conduca sol per
maestria” (Tu m’hai sì piena 10-12).




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7. Perché l’Io si collochi al centro del discorso lirico
amoroso, in anima e corpo, bisogna attendere Francesco Petrarca. Si può ben
dire che con l’io di Petrarca è un nuovo protagonista ad affacciarsi sulla
scena della lirica. Ma esso è troppo complesso e sfaccettato perché io possa
qui presumere di definirne tutti gli aspetti innovativi e, soprattutto, di
cogliere l’ampia raggiera di effetti che esso genera. E’ come se il discorso
amoroso avesse trovato un nuovo epicentro, dal quale si diparte una serie di
onde sismiche che investono tutti gli attanti della comunicazione. E siccome è
un io mobile, che assume configurazioni diverse sia sulla lunga distanza, sia
su brevi percorsi testuali, trasferisce la sua plasticità alla figura
femminile, costringendo il poeta a ridisegnare il rapporto che a essa lo lega
secondo punti di vista diversi e perfino contraddittori. In tanta instabilità
l’articolazione triadica che ho sostanzialmente seguito fino a ora, basata sul
prevalere, di volta in volta, del destinatore, del destinatario o del
messaggio, non risulta più efficace. Si aggiunga che, siccome la poesia di
Petrarca non cerca il dialogo e l’apertura sull’esterno, ad andare in crisi è
proprio quell’idea di poesia come atto di comunicazione che costituiva il
pilastro della prassi poetica medievale. In linea di massima, Petrarca non
cerca testimoni o destinatari privilegiati da iscrivere nei testi (succede
perfino che componimenti sicuramente rivolti a un destinatario storico non
esibiscano né nomi né pronomi); è vero che si rivolge molto spesso alla donna,
però la continuità del libro e, soprattutto, il fatto che quella donna non sia
mera destinataria, ma sia a sua volta un personaggio che interagisce,
riconfigurano l’allocuzione in dialogo. Ma è una dialogicità strana, più di
tipo narrativo che lirico, o meglio, propria di una narrazione integralmente
filtrata attraverso lo schermo (lirico) soggettivo.




         Mi è
capitato di scrivere che la scoperta petrarchesca dell’Io nei confronti della
lirica medievale è una vera e propria rivoluzione copernicana . Bisogna
aggiungere che questa rivoluzione sulle prime non appare tale: non sembra
sconvolgere, cioè, e tanto meno azzerare l’immaginario e il sistema espressivo
della grande tradizione cortese. Non sembra farlo perché Petrarca lavora
dall’interno: di quella tradizione fa suoi, con una disponibilità che prima di
lui nessuno aveva manifestato in così grande misura, i motivi, i temi, i codici,
la lingua, salvo poi tradurre quei codici formali e quel sistema di valori in
un diverso linguaggio concettuale.




         Come per
tutta la lirica cortese, anche per lui è determinante il tema della
frustrazione del desiderio. Anche per lui, cioè, il rapporto amoroso non può
essere paritario e, soprattutto, come il mito di Dafne che si sottrae
all’abbraccio di Apollo mostra plasticamente, il desiderio non può essere
appagato. Nella poesia di Petrarca, però, la negazione del desiderio e il
blocco della dinamica erotica non dipendono che parzialmente dal rifiuto della
dama: in altre parole, non sono, o non sono soltanto, i normali effetti
delusivi previsti dal codice lirico amoroso o il rispecchiamento letterario di
comportamenti sociali anch’essi codificati. Il negarsi di Laura ha radici più
profonde: è il manifestarsi all’esterno di una frustrazione già scontata
interiormente. Possiamo allora dire che Petrarca, con il dissidio fra
incoercibilità del desiderio e consapevolezza della sua peccaminosità, ha
trasformato una dinamica interpersonale in una dialettica della coscienza. La
traduzione a cui prima accennavo avviene dunque in termini etici.




La componente etica, sostanzialmente ignota nella sua
configurazione di dibattito e dissidio interiore al laicismo della lirica
medievale (il moralismo di Guittone e dei suoi seguaci fiorentini era di stampo
dottrinale, mirava soprattutto a colpire il peccato sociale), dà spessore e
‘modernità’ all’Io petrarchesco. Un Io che noi, oggi, possiamo osservare come
un campo di tensioni psicologiche perché agli occhi di Petrarca si presentava
come spazio della coscienza, e in quanto tale misurabile, per l’appunto, con le
categorie dell’etica e della morale. Quale che sia la causa della condanna
inflitta al sentimento amoroso, o perché esso è sentito come passione
dell’anima e turbamento dell’equilibrio razionale, o perché è vissuto come
peccato che turba l’ordine provvidenziale del creato, la negatività di quel
sentimento è esprimibile e giudicabile. L’Io, insomma, non è un imprendibile
fascio di forze e di contraddizioni, o meglio, non è solo questo; è anche un
punto di riferimento sicuro, esplorabile con gli strumenti della logica e della
filosofia. L’effetto complessivo è quasi paradossale: quegli stessi percorsi
analitici che dotano il soggetto di interiorità conferiscono all’Io una corposa
personalità. Petrarca può sfruttare così la lezione della Vita Nova e fare
dell’Io un personaggio vero e proprio.




         L’avere
introiettato la colpa, l’avere fatto, cristianamente, del desiderio un peccato,
è stato il passo necessario perché la lirica d’amore cominciasse ad abbandonare
il territorio delle apparenze o dei comportamenti codificati e a inoltrarsi
nell’ignoto della soggettività. L’amore petrarchesco, in effetti, non è
ipostasi del desiderio, ma è desiderio stesso; pertanto non è una entità
personificabile, ma un grumo di tensioni e di pulsioni. Riverberandosi sulla
donna amata, la struttura su una duplicità di ruoli del tutto analoga a quella
dell’Io. Come questi è insieme personaggio di una storia, attore di un racconto
e spazio interiore del dissidio e delle contraddizioni, così Laura è nel
medesimo tempo l’oggetto esterno di desiderio e il nome stesso del desiderio:
colei che apparentemente lo suscita in realtà esiste solo in quanto ne è
investita. Si può dunque concludere che le dinamiche sentimentali e pulsionali
dell’amore petrarchesco hanno origine dall’Io e che ciò costituisce un perfetto
rovesciamento del tradizionale rapporto cortese nel quale, essendo l’amore
caratterizzato da un movimento dall’esterno (la dama) all’interno, al soggetto
era riservato un ruolo passivo.




         Dicevo prima
che Petrarca si colloca all’interno della tradizione e ne accetta,
trasformandolo, il linguaggio e le situazioni. E’ quasi superfluo precisare che
molto aggiunge di suo. Una situazione che può essere considerata tutta sua è
quella dell’amore oltre la morte. Nella poesia medioevale la morte della donna
amata provocava, quasi di necessità, la fine del canto del poeta-amante: la
pratica della poesia come mezzo di comunicazione sociale non lasciava spazio a
una lirica amorosa che avesse perduto il suo oggetto. In tutto il grande corpus
trobadorico e italiano prima di Dante sono pochi, per non dire pochissimi, i
componimenti che registrano la morte di una donna amata. E anche quei pochi,
divisi sostanzialmente tra planctus e improperium, sono isolati all’interno
della produzione del loro autore. Prodotti estemporanei che mai accennano ad
aggregarsi in serie e tanto meno  a
configurare un ciclo funebre. Il codice cortese prevedeva l’amore da lontano e
ammetteva quello per una sconosciuta, ma non consentiva il persistere di un
rapporto fondato sulla memoria e sulla fedeltà a un fantasma. Questo rapporto
avrebbe contraddetto la dimensione pubblica di una poesia che regolava più la
sfera del comportamento che quella degli affetti. Perfino il poeta che può
essere considerato l’inventore del genere “lirica in morte”, e cioè Dante,
imposta i suoi compimenti essenzialmente sulla tonalità del compianto: egli ha
aperto una strada, ma ne ha percorso solo un breve tratto .




         Sappiamo,
invece, cosa rappresentino le cosiddette rime in morte nell’economia del
Canzoniere. E’ stato proprio l’interiorizzazione dell’amore come desiderio a
offrire a Petrarca la possibilità di sviluppare un discorso sull’assenza e
nonostante l’assenza. Se la mancanza è connaturata al desiderio stesso, la
mancanza dell’oggetto fisico diventa puramente accidentale. Non solo Laura non
ha bisogno di esistere per esserci, ma addirittura il non esserci può umanizzarne
il fantasma fin quasi a rompere l’estremo limite del codice trasformando la
dama che si nega in una amante consenziente. Mentre Dante non rivolge alcuna
apostrofe a Beatrice defunta e, con l’eccezione di tre brevi discorsi diretti
impostati sul “tu”, ne parla sempre alla terza persona, Petrarca nella seconda
parte del Canzoniere passa stabilmente dal “voi” a un “tu” confidenziale. La
seconda persona singolare nel discorso amoroso di intonazione elevata, tragica,
è una delle sue acquisizioni non secondarie. Ebbene, la scoperta del “tu”
dipende da una profonda rifondazione dell’Io.






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<!--[if !supportEmptyParas]--> <!--[endif]-->




<!--[if !supportLists]-->(1)   <!--[endif]-->Relazione
pronunciata, con il titolo L’io lirico,
al Convegno internazionale “Petrarca, l’Umanesimo e la civiltà europea”,
Firenze, 5-10 dicembre 2004.




<!--[if !supportLists]-->(2)   <!--[endif]-->Claudio
Giunta, Versi a un destinatario. Saggio
sulla poesia italiana del Medioevo
, Bologna, Il Mulino 2002; le citazioni
che seguono sono dalle pp. 63-64; dello stesso Giunta si vedano anche i
volumi:  La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli,
Bologna, Il Mulino 1998; Due saggi sulla
tenzone,
Antenore, Roma-Padova 2002; Codici.
Saggi sulla poesia del Medioevo
, Bologna, Il Mulino 2005.




<!--[if !supportLists]-->(3)   <!--[endif]-->Concordanze della lingua poetica italiana
delle Origini (CLPIO)
, I, a c. di d’Arco Silvio Avalle e con il concorso
dell’Accademia della Crusca, Ricciardi, Milano.Napoli 1992.




<!--[if !supportLists]-->(4)   <!--[endif]-->Ho
esaminato questo punto cruciale del “libello” nel volume Amate e amanti. Figure della lirica amorosa fra Dante e Petrarca,
Bologna, Il Mulino 1999, in part. pp. 42-48.




<!--[if !supportLists]-->(5)   <!--[endif]-->Fra i
molti lavori di Rico sono da ricordare almeno 
il libro Vida u obra de Petrarca I
Lectura del “Secretum”,
Padova, Antenore 1974 e il saggio “Rime sparse”, “Rerum vulgarium fragmenta”.
Para el titubo y el primer soneto del “Canzoniere”,
“Medioevo Romanzo”, III
(1976), pp. 101-38. Per il primo sonetto rimando anche a Marco Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto
nel Canzoniere di Petrarca
, Bologna, Il Mulino, Nuova edizione 2004, pp.
104-9.




<!--[if !supportLists]-->(6)   <!--[endif]-->Si
vedano: ‘De Guidone di Cavalcantibus
physico’ (con una noterella su Giacomo da Lentini ottico)
, in Per Domenico De Robertis. Studi offerti
dagli allievi fiorentini,
a c. di Isabella Becherucci, Simone Giusti,
Natascia Tonelli, Firenze, Le Lettere 200, pp. 459-508; Linee di cultura medica per la lettura di Petrarca Rvf 47, 48, 49, “Per leggere”, III (2002),
pp. 5-24; Fisiologia dell’amore doloroso
in Cavalcanti e in Dante: fonti mediche ed enciclopediche,
in Guido Cavalcanti laico e le origini ella
poesia europea, nel VII centenario della morte. Poesia, filosofia, scienza e
ricezione,
Atti del Convegno internazionale, Barcellona, 16-20 ottobre
2001, a c. di Rossend Arqués, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pp, 63-117.




<!--[if !supportLists]-->(7)   <!--[endif]-->Cf.
Tonelli, Fisiologia dell’amore doloroso
in Cavalcanti e in Dante…
, p. 75.




<!--[if !supportLists]-->(8)  
<!--[endif]-->Cfr. Marco Santagata, Acédie, aegritudo, dépression. La modernité d’un poète médiéval,
“Europe”, 82, n. 902-903 (Juin-Juillet 2004), pp. 124-35.




<!--[if !supportLists]-->(9)   <!--[endif]-->Per
la tradizione delle rime in morte e per il ruolo innovatore di Dante rimando al
cap. “Il lutto del rimatore” del già cit. Amate
e amanti
, pp. 63-111.